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Il nome e il profumo delle cose


Quanto tempo avesse impiegato per raggiungere Lesina da Capoiale, non seppe dirlo. Ricordava il profumo resinoso delle tamerici e quello salino del lungo arenile; odori che si affievolivano col cambiare del vento, sostituiti da quelli più penetranti e acidi di pomodori schiacciati sotto i piedi, perché gli infradito che calzava gli erano serviti appena a ricoprire i soli calcagni; le dita e il resto era una purea di sugo e terra, come l’impasto che gli restava appiccicato, quand’era piccolo, dopo aver aiutato la madre a fare la passata. Cosa avesse visto lo ricordava preciso: le sagome nere delle due isole molto più vicine del solito, quasi a toccarle. Non vide altro. Gli era bastato non perderle d’occhio per tutto il cammino, furono il suo punto certo di riferimento.

Il brigadiere ipotizzò un ragionevole tempo di percorrenza: «Diciamo, sei ore»?

Restò perplesso; poteva darsi che fossero state sei ore, ma anche di più, calcolando che il sole non l’avesse mai perso, restandogli sempre sulla testa e volteggiando da sinistra a destra. Annuì col capo, poi affermò:

«Sì. Forse sei ore, ma anche sette, otto…»

Il carabiniere accennò qualcosa con le sole labbra. Un sussurro spazientito di chi aveva fretta di concludere per tornare a casa.

«Come ti chiami?» esplose rabbioso il milite, per poi correggersi con un più cortese: «Intendo, le sue generalità».

Quel cambio di tono lo predispose a una maggiore collaborazione; ma riuscì a riferirgli soltanto gli odori e le vedute di quel tragitto, nient’altro. Le bacche di ginepro, appena scorticate, lasciavano sotto l’unghia del pollice un odore di limone verde e menta piperita. Poteva bastare? Gli occhi del militare si socchiusero accompagnate da un leggero scuotimento del capo. Si sedette al tavolino della macchina per scrivere, cominciò a compilare un foglio, dettandosi a voce alta: “Soggetto sconosciuto, dall’apparente età di quarant’anni, si presentava questo pomeriggio in questa caserma con un un’aria spaesata. Alla richiesta delle generalità, opponeva un ottuso silenzio…” smise qui. Tirò il foglio dalla macchina e lo accartocciò. Si alzò da quel posto per sedersi sul bordo della scrivania, restando poco distante da lui.

«Continui» gli accordò.

«Dopo le bacche di ginepro, intende»?

«Sì. Dopo quelle».

C’erano i gusci di conchiglie che aveva raccolto lungo il percorso; le aveva in tasca, le mostrò. Non prima di averle annusate, c’era il mare dentro. Lo poteva anche sentire. Ne appoggiò una all’orecchio: sì, c’era proprio il mare racchiuso. Non che amasse molto quell’acqua salata che non mancò mai di bere dopo ogni suo tuffo o tentativo di nuotare. Gli piaceva l’odore, quello senz’altro, ma non il gusto. Aveva sempre invidiato i giovani turisti del nord che si calavano nell’acqua scivolandoci dentro; andavano come se fossero proprietari di tutto quell’azzurro intorno. Invece no, doveva essere una loro cosa; come gli spiegò una volta il nonno: “Li vedi quei cefali che saltano? Sono una cosa nostra, e loro li vengono a mangiare…”. L’amara considerazione lo aveva lasciato indifferente. Amava quelle giovani ragazze ben pettinate e il corpo bianco e sottile. “Sono belle, nonò. Se non venissero più, mi dispiacerebbe”. “Ti piacciono, eh?” aveva sorriso il vecchio. Sì, lo arrapavano proprio; ma non lo disse.

«Come si chiamava suo nonno»?

Non seppe rispondere. Disse solo: «Io lo chiamavo nonò, come tutti».

Dare un nome alle persone era giusto. Serviva per poterlo evocare al prossimo incontro o, in questo caso, riferirlo all’autorità. Le cose, diversamente, potevano restare senza nome. Ora ricordava i nomi delle cose, non quello proprio degli umani. L’arbusto era una tamerice, il pesce un cefalo, la bacca un ginepro, i gusci vuoti le capesante.

Nonò era il vecchio dal capo bianco e il corpo rugoso e sempre abbronzato. Aveva un buon odore, sapeva di terra e di mare allo stesso tempo. Parlava sempre piano e con un tono basso, un ruggito che faceva tremare l’aria intorno. Questo poteva dirlo, ma non lo disse, nel timore che il sostituto del maresciallo potesse irritarsi e picchiarlo. Finiva sempre così col padre, quando gli capitava di parlargli in modo strambo.

Un odore di alghe marce si diffuse in tutta la stanza. Il graduato si scostò dalla scrivania e provvide a chiudere la finestra, imprecando: “Ma stavo così bene a San Giovanni. Proprio in questo paese puzzolente e pieno di zanzare dovevo capitare”. Si riaccostò alla scrivania, asciugandosi la fronte.

«Allora» riprese «riesce a dirmi qualcosa di lei»?

«Posso dirle quello che ricordo».

«Infatti, ricorderà perlomeno il suo nome».

«Non me lo ricordo, ma so di essere io».

«Pure io so chi sono, ma con un nome attaccato».

Il vicecomandante tornò a riaprire la finestra, questa volta per fare svaporare l’aria densa e umida. Rientrò quello puzzolente delle alghe marcite.

«Vabbè» disse sconsolato «di qualcosa dobbiamo pur morire, meglio la puzza del caldo».

Si sedette, infilò un nuovo foglio nel carrello della macchina per scrivere, pur sapendo di non sapere cosa scrivere. Non gli capitava spesso di supplire il capo. Quando c’era, lui si limitava a battere quello che il comandante gli dettava; le parole erano sempre quelle giuste, non quelle che gli servivano ora per descrivere quel caso strano. Non sapeva da dove cominciare. Sudava.

Gli fece pena. Avrebbe voluto collaborare. Si limitò dire: «Certo, a San Giovanni l’aria è sempre più fresca».

In quel paese miracolato c’era stato più di una volta, nella Casa di Sollievo della Sofferenza, che non era come un ospedale: non puzzava di cloroformio. Odorava, invece. “È il profumo di Padre Pio”, gli aveva detto la madre.

«Forse è meglio se mi portate lì» propose.

«Sì. Ha ragione, magari si rinfresca anche le idee. Chiamo l’ambulanza».

Già la strada era fresca, la ricordava bene: una lunga e interminabile serie di curve che si arrampicavano a cominciare dal bosco di Cagnano, per inoltrarsi in quello più scuro e odoroso del Parco Nazionale. Gli sembrava sempre di fare una gita, la sua vacanza. Gli odori non erano gli stessi della costa, sapevano di bucce di mele e scorze di nocciole. Così quello muschiato del terreno completamente ricoperto di foglie verdi che cadevano pure d’estate, data l’ombrosità. A mezza costa il panorama si allungava sino al mare, comprendendo anche il lago di Varano. Quello di Lesina, no. Quello bisognava venirlo a cercare, come aveva fatto. Lo si poteva attraversare tutto a piedi, tanto era bassa l’acqua: una parvenza di laguna a volte putrescente, com’era stata quel giorno.

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