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Futuro semplice


In anteprima un racconto tratto dal mio libro "Racconto brevemente (e spiego alcune cose)". KDP Amazon

 

Futuro semplice

Partiremo domattina presto. Sentirò ciabattare la mamma già prima che la luce del sole si sarà infilata tra lo stipite e l’orlo della tenda; la sentirò inveire sottovoce contro mio padre che si sarà trattenuto, fin troppo, chiuso nel cesso; un filo di voce rauco e penetrante: “Faremo tardi, datti una regolata!” Non riceverà alcuna risposta. Io aspetterò che si decida a portarmi la colazione, non prima che avrà battuto il tappeto sul balcone: dieci martellanti colpi sull’antico ordito, cadenzati e intervallati di cinque secondi ognuno per un totale di cinquanta secondi; ritiro e stendimento, altri cinquanta; pentolino sul fuoco e riscaldamento del latte un minuto, che farà un totale di circa tre minuti.

Le previsioni metereologiche annunciano le nubi sparse e qualche probabilità di precipitazioni. La mamma si premurerà di riferirlo a mio padre non appena uscirà dal bagno. Le risponderà che tanto è sempre meglio non sapere prima cosa accadrà dopo. È fatto così: alle incerte probabilità preferisce le più confortevoli sicure incertezze. Un uomo con i piedi per terra, si direbbe, uno cui non interessa correre avanti col pensiero, non gli serve sapere, o non vuole sapere, ciò che è imponderabile: il futuro.

Non è stato sempre così, da come mi ricordo. C’è stato un lungo tempo, prima, che gli piaceva prevedere il poi; il mio, per intenderci. Previsioni ottimistiche sul mio avvenire che mi angosciavano non poco: farai, sarai, dirai… parole che non riuscivo ad ancorare in quel melmoso mare ancora da scandagliare, né mi andava di farlo. Ero molto giovane per credere che sarei diventato adulto, con tutte le conseguenze cadenzate su tempi geologici: la laurea, il lavoro, il matrimonio, i figli da crescere…

Ora le sue incertezze sono cadenzate col futuro anteriore, ipotesi più banali con le quali ci assillerà durante il percorso: “Avremo preso calze sufficienti?” - “Avrò spento il gas?” - “Avrò dato la quarta mandata?...”

La mamma si limiterà ad annuire con la testa. Una qualsiasi perplessità lo condurrebbe a una frettolosa retromarcia che nessuno di noi due, intendo io e mamma, avrà voglia di fare. Procederemo, sempre avanti.

«Arriveremo a San Lucio intorno a mezzogiorno. Clelia avrà probabilmente pensato al pranzo.»

Zia Clelia avrà certamente pensato al pranzo. La mamma starà zitta pochi secondi, poi affermerà:

«Certo che ci avrà pensato.»

Avrò sentito lo stesso discorso a ogni partenza, pausa d’insofferenza compresa, e continuerò sentirlo sempre uguale.

«Si ricorderà di non soffriggere troppo l’aglio?»

«Lo soffriggerà il tempo necessario.»

«Appunto, sarà il ‘suo’ tempo necessario.»

«Non glielo farai notare, spero.»

«No, non lo farò.»

Il tempo peggiorerà. Quel nuvolone grigio scuro davanti a noi è già maturo per il consueto temporale estivo lungo questa strada. Incontreremo l’acquazzone ma non lo attraverseremo. Ci fermeremo sotto le pensiline dell’Autogrill. Mio padre non uscirà per prendere qualcosa al bar che sarà già gremito di tutti quelli che avranno avuto la stessa idea di fermarsi.

Il parabrezza comincerà ad appannarsi. La mamma provvederà nettarlo col pannetto giallo che preleverà dalla tasca laterale del suo sedile.

Nel frattempo, penserò.

Verrà a trovarmi Luciana per leggermi il suo ultimo racconto di una lei che si struggerà in ogni pagina, mentre un lui non avrà capito i suoi profondi sentimenti?

Abbozzerò un sorriso.

Sorriderò perché a lei farà piacere che avrò apprezzato il suo compitino, e resterà ancora seduta accanto. Sentirò il suo lieve profumo di una rosa tea. M’inebrierò di quell’odore vago che resterà ancora dopo, quando sarà andata.

«Smetterà tra un paio di minuti.»

«Sì, credo che smetterà di piovere tra non molto.»

Non smetterà di piovere tra un paio di minuti, e nemmeno tra non molto. Smetterà quando il vento avrà cambiato direzione spingendo la nuvolaglia verso il mare. Avrò tempo di riflettere ancora per un po’.

Vivrò tutto il loro tempo. Trascorrerò con loro tutto il resto del mio tempo. Un presumibile periodo che potrà variare da dieci a quindici anni. Spetterà al babbo prima, se non sarà accaduto qualcosa di diverso nel frattempo; quindi, percorreremo questa lunga strada ancora una quindicina di volte, se non sarà successo l’imprevedibile; non necessariamente catastrofico, ma una semplice slogatura di un piede di mio padre che non gli consentirà di guidare. Luciana aspetterà invano il suo uditore preferito, ed io non avrò annusato per un’estate il suo dozzinale Scent of roses. Me ne farò una ragione, non avrò altra scelta; salvo che mia madre non prenda la decisione, spesso ipotizzata, di invitare Luciana a casa nostra. Lei non potrà venire, perché non verrebbe senza zia Clelia che, a sua volta, non lascerebbe incustodito il suo orto d’insalatine e verdurine fresche; il suo tempo e il suo spazio sono racchiusi in quei cinquecento metri quadri che comprendono anche il suo carapace/casa dalla quale esce soltanto per la sarchiatura del terreno intorno alle tenere piantine: “Una sola settimana e diventerebbe una giungla”; sostiene. Né consentirebbe che se ne occupasse uno dei tanti vignaioli dei restanti dieci ettari di proprietà confinanti col suo orto: “Quelli son buoni solo a fresare con le macchine, con le mani sono bravi solo a palpeggiare le natiche delle vignaiole”; ribadirà, come sempre.

Tra un po’ ripartiremo. Lasceremo la noiosissima autostrada. L’ultimo pezzo sarà un saliscendi tortuoso fiancheggiato da filari di vite di uva da vino.

«Sarà una buona annata quella di quest’anno?»

Resteranno un paio d’ore di strada ancora, e potrò assaggiare quello dell’anno scorso. “Il nostro Sauvignon non deve superare l’anno…” commenterà la zia Clelia; e le verranno i lucciconi nel ricordare il monito dello zio Riccardo. Venivano anche a me, i primi anni dopo la sua morte. Col passare del tempo comincio a invidiare sempre più quel buontempone che se n’è andato al momento giusto. Ci sapeva fare con la vita: un colpo secco e via. L’intera esistenza fatta di colpi secchi e via, non poteva che concluderla in quel modo. Il solo episodio che mi riporta indietro nel tempo. Durerà poco. L’attimo di un sorso e la discussione prenderà il consueto tempo del futuro.

«Quello di quest’anno sarà migliore. È piovuto molto, prenderà più gradazione.»

È proverbiale la sicumera di mio padre in certe affermazioni. Non capisce niente di vino e vinificazione, gli ho sentito dire la stessa cosa anche l’anno che non piovve molto; ma il tono con cui lo dice è convincente. L’asserzione resterà sospesa nel vuoto pneumatico della sala da pranzo, lasciando perplessa solo zia Clelia che si limiterà a sollevare le sopracciglia. Sarà mia madre a svicolare: “Che importa se sarà più forte o meno, importante che noi continueremo a berlo insieme intorno a questo tavolo”.

Continueremo a berlo insieme solo noi. Nessun altro sarà invitato. Nessuno potrà sedersi con noi a tavola. Zia Clelia non lo permetterà. E saranno d’accordo, per tacito consenso, anche i miei genitori. Non avrò nessun altro piacere che lo sguardo di Luciana che si poserà come un velo caritatevole, non pietoso, sull’intero mio corpo. Un tulle bianco molto trasparente, un drappo leggero; non il più pesante e premuroso sguardo degli altri parenti. Quelli, dovrò continuare a sopportarli. Non ho altra scelta.

«Dovrò cambiare gli ammortizzatori.»

«Sarebbe il caso che ne prendessimo uno nuovo.»

Non lo farà mai.

Ogni centesimo sprecato sarà sottratto all’imprevedibile futuro. Si parla del mio, di futuro. Ogni centesimo risparmiato farà crescere il piccolo (grande?) gruzzolo per il dopo di loro. Sempre che mio padre non vorrà prendere l’insana (saggia?) decisione mai proferita: quella di stubarmi. Un colpo secco e via.

Nel frattempo, il mio radioso e splendido futuro continuerà a restare intatto dentro di me. Avrò preso il mio trenta e avrò sdegnato un eventuale ventotto. Ho un futuro davanti, l’unico tempo che mi consente la mia immobile esistenza. Il passato è solo un doloroso e ucronico pensiero: “Se”. il presente non potrò più praticarlo.

«Tua sorella sarà in apprensione per il nostro ritardo.»

«Avrà piovuto anche lì, immagino.»

«O avrà sentito i tuoni in lontananza. Capirà.»

Anche zia Clelia, a suo modo, si sarà ormai persuasa che il suo tempo passato resterà chiuso in quel vecchio armadio, tra le grucce marcate “Mary Quant” delle sue scosciatissime minigonne. Il presente la impaccia; il futuro, perlomeno, è tangibilmente verificabile con l’ingrossarsi delle cucurbite del suo orto: la zucchina, per citare la più metaforica delle allusioni.

Qualcosa accadrà.

Se [if] accade questo, allora [then].

Una semplice istruzione informatica che sarà, prima o poi, implementata sulle autovetture. Un’elementare istruzione che eviterà per sempre che qualcuno vada a incastrarsi con la propria utilitaria sotto il rimorchio di un autoarticolato. Una semplice ed elementare istruzione: Se l’auto sta procedendo a oltre ottanta all’ora su una strada cittadina e il sensore posto sul parabrezza intercetta il rosso del semaforo, Allora inserisci automaticamente l’impianto frenante che quella testa di cazzo del giovane autista non è stato in grado di fare per la fretta di raggiungere la Facoltà e sentire gli argomenti di esami che avrebbero sostenuto quelli che lo avrebbero preceduto. Fine della istruzione, frenata coercitiva, esclamazione: “Cristo, che minchiata stavo combinando!” Un’istruzione già implementata naturalmente nel nostro cervello col generico termine di: prudenza! Che in un giovane uomo difetta per l’ovvia mancanza di esperienza. Ora è fin troppo tardi: non riuscirò mai più a staccare il mio piede destro dall’acceleratore, come mio padre non riuscirà a staccare questo stracazzo di tubo…

Accelera pa’; è inutile rallentare ora. La mamma non riuscirà più a portare a termine il suo grandioso romanzo; le mancava un solo capitolo e avrebbe realizzato tutto quello che voleva dalla vita: essere presentata come scrittrice. Non rallentare pa’; non servirà nemmeno a te pensare di arrivare il più tardi possibile alla vecchiaia per giocare col nipotino che non riuscirò a darti. Spingi forte papà; farai un torto solo a zia Clelia che ci starà aspettando ansiosa di calare la pasta, l’unico e solo impegno della sua solitaria esistenza. Luciana ne vive una sua, separata da quella della madre. Più di una vita, in verità. Seppure narrate in mielosi raccontini.

«Accelera un po’, faremo tardi.»

«Non ho voglia di andare a sbattere.»

Questo è improbabile. L’ipotesi che un trattore ci tagli la strada è vanificata dai vituperati rondò: i magici circoli virtuosi che hanno sottratto ai vignaioli gran parte di terreno fertile per evitare che dei coglioni di cittadini ci rimettessero le proprie vite. Ettari di pregiati pergolati sottratti a beneficio di una sola vita. Tu accelera lo stesso pa’; c’è sempre un qualche platano solitario in attesa di intralciarci per sempre. Premi forte, conviene a noi tutti. Zia Clelia comprenderà e Luciana si deciderà a cambiare genere di scrittura, più aderente alla realtà. Sbrigati pa’, ti prego!

«Avrà scritto un nuovo racconto luciana?»

«Penso proprio di sì. »

Lo penso anch’io. Un anno è anche il suo tempo per affinare lo scritto, così come il bianco Sauvignon. Il fermento di dodici mesi per un risultato fruttato e acido: una sequela di paragrafi con un inizio di vergine vogliosa e disponibile che si concludono con amare considerazioni su un maschio ingrato e profittatore. Un amore che non c’è mai stato, di certo è finito: ...non ci sarà un’altra occasione, non sarò mai più il tuo giglio profumato; le tue mani ora stringono un ramo secco e spinoso che lascerà per sempre i laceranti segni di un rimpianto… intanto la sua mano paffuta si sarà posata lì, dove immagina che qualcosa potrebbe muoversi. Lo farà come ogni volta, terrà il libro con la mano destra e disinvoltamente poggerà la sinistra sulla mia patta. Le sarò grato per questo: la sua generosa disponibilità m’illuderà che qualcosa potrebbe accadere.

«Tutta colpa del padre, che riposi in pace….»

«Che c’entra Riccardo?...»

«La voleva bella grassa, la sua ‘bambina’.»

«Morirà prima del tempo anche lei…»

Poco meno di un metro e sessanta di altezza per ottanta chili di peso non saranno la sua causa di morte, non lo penso. Mia madre è sempre propensa al peggio in tema di obesità. La paffutella (cicciottella della zia) lo è stata per i primi due anni di vita, per diventare al venticinquesimo mese un po’ grassottella e dal ventiseiesimo in poi decisamente cicciona. Obesa, dice ora. Starà per dirlo.

«L’obesità in una donna è roba africana...»

«Non affronterai l’argomento, spero.»

La mamma lo affronterà in cucina: “Lo dico per il suo bene, non devi prendertela”.

Le risponderà zia Clelia: “Sei riuscita a non far correre Alfredo?...”

Seguirà il lunghissimo silenzio e il successivo pianto delle due infelici sorelle.

Temo che a mia madre non le freghi più di tanto dell’obesità della nipote, ormai. La cosa la interessava davvero prima, poi è diventata l’introduzione (incipit, direbbe lei) di questo consueto dialogo con un epilogo liberatorio. Poco le importa se il mio senso dell’udito si è nel frattempo acutizzato per ascoltare qualsiasi bisbiglio…

«Quanto manca?»

«Un paio d’ore, penso.»

Mancheranno esattamente due ore all’altezza del tiglio secolare sul quale Daniela ed io incidemmo le nostre iniziali e l’anno; così inciso ci sembrò un’epigrafe, piuttosto che la testimonianza che lì c’eravamo stati anche noi: A.D. 2…

Anno Domini… di quale anno?

«Ecco il tiglio secolare, mancano esattamente due ore.»

Sì, lo so bene che mancano due ore, pa’. Se ti fermassi, riuscirei a vedere quel numero, forse.

«Rallenta, fammelo godere.»

No, digli proprio di fermarsi ma’. Ti supplico!

«Mi fermerei pure, ma Clelia starà in ansia.»

«Già. E non possiamo nemmeno chiamarla. »

Che anno era?... fanculo zia Clelia! Detesto le sue fisime snob a non possedere un cellulare. Non ci siamo fermati. Che anno era?

«Forse ha ragione lei, nel farne a meno; una sua illusione di fermare il tempo.»

Il suo tempo non è fatto di mesi e di date in essi contenute. Ogni mese, o una data, racchiude un evento, un ricordo, una celebrazione. Dopo la morte del marito, disse, aveva cominciato solamente a numerarli i giorni di un anno; cominciando da quello dopo i botti che salivano dal paese: quello sarebbe stato il primo, e così via. Intorno al sessantesimo comincia le prime semine, dal novantesimo, o giù di lì, la messa a dimora delle piantine. La crescita e la maturazione avvengono a piacimento della natura, all’incirca tra il centoventesimo e il centottantesimo giorno di un tempo senza date, che coincide, pressappoco, col nostro arrivo. La conta inizia e termina a ogni spuntare del sole; del tramonto, non tiene conto. La cosa agevola Luciana per la numerazione delle sue pagine: una al giorno. Per le scadenze contabili, il pagare i vignaioli e i braccianti, ci pensa Luigi, il fattore. Un compito da svolgere, privatamente, ogni trenta giorni. Il suo giorno preferito, dice: “Quel trentesimo giorno ho l’intera mattinata libera da trascorrere in paese per spendere la paghetta di Luigi, metà in dolci, l’altra metà per Pietro, il copista dattilografo e rilegatore.” Facendo un rapido calcolo, stimo che ogni libro le costerà circa trecento euro, giacché il compenso a Pietro sarà di un euro a pagina. Non molto, considerando il faticoso e noioso lavoro di trascrizione del manoscritto con la biro e la conclusiva impaginazione e rilegatura. Moltissimo, se paragonato al costo del print-on-demand: all’incirca dieci euro per qualcosa che sembra un vero libro; copertina illustrata inclusa. Era quello che avrebbe speso mia madre, se avesse potuto terminare il suo romanzo e mandarlo in stampa. Invece, la sua narrazione è stata distratta da un tempo narrativo reale che l’ha ritrascinata nel dovere di madre ad accudire un figlio con i bisogni di un neonato senza nome: “Ho da badare al ragazzo” la sentirò ripetere. Cancellata ogni altra aspettativa, figurarsi a scrivere un romanzo…

«Avrò abbassato la tapparella in stanza da letto?»

Non cambiare argomento pa’. Anche il tuo tempo, si è fermato al penultimo giro della tua corsetta mattutina, non avresti mai potuto immaginare che sarebbe stato l’ultimo; ed è del tutto inutile che ti ostini a ripensarlo con ipotesi alternative non praticabili, un tormento di pensieri che ti conducono alla stessa non conclusione. I tuoi risvegli continueranno a essere come i miei: il solo brevissimo e illusorio istante che nulla sia accaduto. Sì, lo so bene, fosti tu a decidere che io prendessi la tua auto piuttosto che il mio motorino, ti faceva sentire più sicuro; ed io fui ben felice di poter sorprendere Daniela con un duemila turbo dotata di comodi sedili ribaltabili di vera pelle; ci sarebbero stati utili dopo il meritato trenta del mio definitivo esame. Mi scoccia, pa’; non avrei mai potuto immaginare che l’ultimo tuo mezzo di trasporto sarebbe stato questo Doblò adattato al mio bisogno.

«Ho l’impressione che non le abbiamo chiuse.»

«Ecco, vedi. Avresti dovuto farlo tu…»

«No caro. Sei tu che di solito badi a farlo.»

«Non cominciare…»

«In verità, sei tu che hai cominciato…»

Riprendo a pensare. Magari ci ricavo un romanzo. Non sarebbe una cattiva idea; un romanzo che potrei leggere solo io, tenendolo tutto in mente. Bisogna che freni in tempo, però.

Freno, stridio di ruote, bloccato!

L’autista dell’autoarticolato scuote la testa con l’aria di chi stia dicendo: “Stronzo, potevi finirmi sotto!” gli sorrido con l’aria fessa, come per dirgli: “C’hai ragione, scusa.” Quello riparte. Il bestione mi scorre davanti a pochi metri dal muso della mia auto: finirci sotto, sarebbe stato un bel casino tirarmi fuori…

Mi sto pisciando sotto. Lo dico davvero, fuori dal racconto. Sarà la mamma che tra poco ne sentirà l’odore.

«Ci fermiamo? Devo cambiarlo.»

«Direi di no, lo facciamo appena arriviamo.»

Non sono d’accordo. Non sono quasi mai d’accordo con le loro decisioni sul quando prendersi cura di me. E il pisciarmi addosso è il meno increscioso dei miei problemi.

Riparto.

Il pesantissimo mezzo mi sgombra la visuale di una prospettiva alberata di un viale privo di altre macchine.

Sgommo.

Non lo faccio per spavalderia; e che non sono molto abituato alla potenza di questa macchina; basta poco, che schizza. Tuttavia, è una bella sensazione sentirmi spingere il culo in avanti, come la mano di qualcuno che ti pressa dicendoti: “Vai, cazzo. Goditela la vita!”

Accelero.

Nello specchietto retrovisore scorgo le auto che mi seguivano ancora ferme all’incrocio. La sensazione è quella di un volo nella sua fase più eccitante: il decollo…

Mi sto narrando una storia con un ipotetico lieto fine, tanto per raccontarmela. Non potrò riferirla a nessuno una banale e pedissequa narrazione di un tragitto cittadino eseguito da un giovane su una vettura veloce e di lusso. Una quotidianità senza alcun risvolto, per riempire gli spazi vuoti tra il sonno e la veglia della mente: un meraviglioso onirico e un angosciante risveglio per ascoltare l’ennesima polemica dei miei. Potessi almeno urlare di tacere…

«Ricordo bene di averti detto di chiuderla.»

«Non l’hai detto. Provvedi sempre tu a questo.»

«Infatti. L’unica volta che avevo chiesto di farlo tu…»

«Non me l’hai chiesto. Comincio a credere che farnetichi, ogni tanto.»

Offesa cocente.

Silenzio.

Provo a stare nei pensieri dell’uno e dell’altro: non stanno pensando alle invettive che si sono scambiate, quelle sono parte di un ragionamento automatico, parole pronunciate con un rigoroso ordine contraddittorio; una specie di libera associazione che tiene conto soltanto di una polemica fine a se stessa: si odiano.

Si sono amati un tempo.

Quel tempo correva su delle Nike ammortizzate, comprate da poco. Scorreva tra le pagine di un file che conteneva già duecentomila caratteri, spazi inclusi; mancava un niente. Scivolava su dei pneumatici ribassati, non ci avrei messo molto ad arrivare.

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