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Recensioni

Odore di camino spento

Un racconto lungo in forma di diario, il nuovo libro di Enzo Pagano “Odore di camino spento”. La cronistoria di circa un mese di un caldissimo Giugno durante il quale il personaggio narrante, un anziano dirigente d’azienda in pensione, già sessantottino, è coinvolto in un marginale fatto di cronaca: il furto di un prezioso orologio sottrattogli da una giovane tossicomane che lo aveva adescato per strada. Un casuale e breve incontro di un solo pomeriggio, che si conclude con la bevuta di un pregiato whisky torbato dagli incomparabili odori, tra i quali quello di un camino spento. Il parere olfattivo, espresso dalla ragazza, diventa la metafora dell’intero racconto dell’uomo rimasto solo dopo l’abbandono della moglie, il cui unico scopo è quello di stare accanto al suo nipotino di tre anni, che vede per sole tre ore ogni sabato e al quale ha promesso “solennemente” di regalare quell’orologio ricevuto in dono per il suo pensionamento;  (…) conteneva in sé il riconoscimento di un’intera vita di un uomo, come la croce al merito di guerra conferita a mio nonno, che mio padre mi mostrava con orgoglio. (…).

Il racconto, asciutto e cadenzato come una narrazione di cronaca che si svolge nel quartiere Madonnella di Bari, indugia, a tratti, in riflessioni attuali e storiche di un vissuto “scoppiettante”. L’ironia smorza ogni tentativo di autocelebrazione di una generazione che, bene o male, ha attraversato un felice periodo storico, definito da Hillary Clinton nella sua autobiografia, “…a fortunate time…”. Le contraddizioni ideologiche di chi credeva nell’immaginazione al potere emergono al primo, e forse solo, vero contatto con una realtà sempre evocata e mai vissuta: quella dell’emarginazione e dell’omosessualità. E questo avviene al termine di una vita, non sempre adamantina, che va spegnendosi così come il fuoco di un camino, lasciando nell’aria l’evocativo   odore di cenere.

La scrittura è quella del mostra-non-dire, tipica della narrativa d’azione che non scade, però, nella giallistica di maniera. I riferimenti culturali, sempre presi con la dovuta cautela e pudica distanza, emergono a tratti non senza un certo autosarcasmo. Per esempio, a proposito della sindrome di Proust dalla quale è affetto il personaggio, scrive: (…) così come peschiamo dal nostro intimo più profondo le consonanti nasali retroflesse, la [n] per esempio, siamo in grado, altresì, di farlo con gli odori con un meccanismo simile. Con buona pace di chi non mi volesse classificare tra gli epigoni del grande scrittore.(…)

Un libro con  una trama avvincente, e un finale sorprendente, che si legge d’un fiato. (La Gazzetta del Mezzogiorno 25.8.2016)

Commenti dei lettori

La casa sul pizzo

Qui e altrove

 

“Quei calzini bianchi, troppo corti, diventarono il punto focale della sua attesa”.

Comincia così, con un particolare domestico e prosaico ma immesso in una bolla di attesa indefinita e lirica, la comparsa del personaggio di Claudia: una bambina triste. Una ragazza infelice.

In fuga.

Il suo punto di partenza, un lago senza nome ma probabilmente immobile e senza vita.

Il suo punto d’arrivo, il mare, eternamente in movimento, carico di promesse.

Lì dove la terra finisce.

Di Claudia si sa poco, ma l’incontro casuale con Davide e Marta in un paesaggio di ulivi e mandorli fa emergere sempre più nitidi, come un ricamo che prende lentamente forma, i caratteri di questi tre personaggi, vertici di un triangolo amoroso perfetto. L’amore triste di Davide e Marta, privi di speranze e di figli, reclusi nell’isolamento di una casa solitaria, riprende vita grazie alla ventata di giovinezza che Claudia porta con sé. Da quel momento il loro legame esclusivo e segreto, carico di erotismo e di tenerezza, si svolge in un tempo presente che sembra non chiedere altro. E tuttavia la suggestiva atmosfera di non detto, di vita sottintesa, di particolari taciuti ha delle smagliature perché al di sotto della casa imbiancata dove vivono Marta, Davide e Claudia, c’è una montagnola di sedimentazioni accumulate nei secoli, un vero e proprio tesoro archeologico che, una volta scoperto, minerebbe alle basi quella piccola costruzione che svetta solitaria sul paese sottostante. Basterebbe il ritrovamento casuale di un’anfora greca per mettere in forse lo splendido isolamento dei tre amici-amanti. Chi se ne rende perfettamente conto è Davide il quale, peraltro, avverte un’inquietudine che non è determinata solamente da quella sua casa abusiva che potrebbe essergli espropriata, ma anche dai fantasmi che la abitano. Sono fantasmi della sua mente, appartengono a un passato trascorso, ma nelle pagine si stagliano con una plasticità forte, carica di carnalità e di ferocia: Nadira, la madre, una donna abituata alla terra, alla fatica, alla brutalità, sepolta sotto un mucchio di pietre bianche che spiccano sullo sfondo di cipressi sempreverdi; Samuele, il padre, incapace di baci; lo zio Nicola e la sua pecora di cui il paese intero continua a parlare tra risatine di allusione. Qualcosa di antico, di atavico o addirittura fuori dal tempo come un mito doloroso che si sporca quando cala nel presente: storie minime di uomini minimi e tuttavia resi giganteschi da una sorta di fatale accettazione di tutto ciò che risuona come un primitivo assoggettamento alla natura e alla circolarità delle stagioni. C’è una vistosa contraddizione tra la vita semplice e ottusa degli abitanti del paese e quella “libera” del terzetto e quando Claudia rimane incinta, la decisione di condividere la gioia di una nascita si accompagna alla volontà di tenere nascosti i loro rapporti. A questo punto il tempo della storia e del racconto subiscono un’accelerazione: la vita gioiosa e spensierata del ménage à trois si tramuta in qualcosa che deve rimanere segreto. Dopo un primo progetto di ricoverare Claudia in ospedale coperta da un burqa per renderla irriconoscibile e permettere così a Marta di apparire al mondo come la vera madre, Davide opterà per un suo trasferimento nella vecchia masseria abbandonata del padre. E qui entrerà in gioco il mondo multicolore del popolo del vento, una comunità di zingari accampati lì vicino; e qui ritorna il motivo degli occhi verdi di Nadira, gli stessi della zingara Zara che si prenderà cura di Claudia; e qui fa il suo ingresso il gioco sfavillante del ballo degli zingari mirabilmente descritto in una delle pagine più belle del romanzo. Passato e presente tornano in un gioco che prende forma nella lettura del futuro e nel racconto del passato. Cosa accadrà da questo momento in poi? Autoinganni, nuove fughe, felicità o disperazione? Qualcosa di arcano? Lo scoprirà il lettore alla fine dei capitoli brevi di questo suggestivo romanzo diviso in riquadri come un terreno da edificare. Lo scoprirà quando leggerà che Davide “sollevò lo sguardo per accertarsi che la casa fosse ancora lì e non l’illusione della sua mente, perché d’improvviso tutto ciò che era intorno gli parve irreale”.

Sì, perché la casa sul pizzo, ultima certezza, è la tessera più importante del mosaico. Lì dove la terra finisce. (Nadia Bertolani)

Odore di camino spento

​Difficile classificare “Odore di camino spento” con un aggettivo o un sostantivo, perché di elementi su cui riflettere questo libro ne offre tanti e ogni lettore, a suo modo, è colpito istintivamente da un aspetto specifico e segue quindi quella chiave di lettura. 
Così come eccezionale è che l’input di un libro possa essere un senso: l’olfatto, che permette di poter godere tanto di buone fragranze “…. annusare il tiepido odore della sua pelle misto a quello fresco della termica di un mare piatto e azzurro..”(pag.10) quanto di quelle nauseanti, come “..l’adrenalinico sudore generato dall’ansia..”(pag.172) o “lo psicotico fetore di urina equina e ferodi bruciati..” (pag.10). E chi non è nuovo alla lettura dei romanzi di Enzo Pagano, sa già che l’autore è particolarmente sensibile agli odori, ai profumi che riescono a rievocare una situazione, un’atmosfera particolare. 
E in “Odore di camino spento” tutto parte, infatti, dalla condivisione molto intima, addirittura più di un atto sessuale, del pregiato whisky dell’Islay. 
A prima lettura il romanzo appare un “giallo” a tutti gli effetti, ma a ben riflettere, questo non è altro che un ordito su cui l’autore sviluppa le tematiche che gli stanno più a cuore. 
La senilità (che significa anche avere un corpo vergognosamente cascante di cui si ha ripugnanza), nelle sue diverse maniere di affrontarla e viverla: quella del protagonista e quella del “popolino”. Bellissime le descrizioni, come quadretti naif, del pescatore che passa il suo tempo a pescare, salvo poi ributtare in mare il suo pescato e dei quattro vecchietti, che giocano molto seriamente a tressette in un giardinetto di un quartiere popolare, buttando la carta “..come se ognuna di esse fosse la riprova di un’orgogliosa superiorità..” (pag.167), accontentandosi di mezzi di fortuna, quali casse di birra per sedersi. 
La percezione soggettiva del tempo. Alla domanda di lei: “Quanto tempo ci vuole per raggiungere la tua età?”, il protagonista risponde: “Ce ne vuole tanto, se ti annoi; poco, se hai qualcosa da fare.” (pag.8) 
L’intenso rapporto affettivo nonno/nipotino, che sembra voler riscattare quello contraddittorio e problematico padre/figlia. 
L’omosessualità. Molto bella la trovata di Pagano riguardo al bambino, Ludovico alias Ludwig, che distingue le due mamme, rivolgendosi ad esse con un diverso registro linguistico: “mamma” o “Mutti”. 
Il problema esistenziale: come si arriva sulla terra e come si va via? Da quale parte del corpo esce l’anima? 
Una certa sofferenza psicologica, che porta alla nevrosi e agli attacchi di panico. 
Il tutto si svolge in una Bari afosa e cocente, con la presenza importante del mare e in quartieri , e quindi anche ambienti, diversi: quello borghese e quello popolare della Madonnella, mai frequentato dal protagonista, in cui si aggirano spacciatori e ricettatori. 
Il linguaggio è ricco e minuzioso. Il romanzo, pur se così profondo ed intimista, prende il lettore e si legge tutto d’un fiato. (Lucia Brunetti su Youcanprint)

“Odore di camino spento”, l’ultimo romanzo di Enzo Pagano, ti rimane addosso, nei capelli e nei vestiti, rimane nell’aria e attaccato ai tuoi abiti, anche quando sei arrivato all’ultima pagina e chiudi il libro. Sopra tutti aleggia il profumo del pregiato whisky dell’Islay . Anzi i mille profumi del raro “scotch dagli incomparabili aromi”: di castagne bollite, di bucce di mele, “ liquirizia, cioccolato amaro”; di “un falò spento… in spiaggia…”, di ”mele acerbe… e, infine, quello di “cenere di un camino spento” che riempie il whisky e il racconto. Finisci per sentirlo anche tu quell’aroma grigio, ti entra nelle narici e ti riempie i polmoni. Ora, metteteci tutto questo a cui ho accennato, condito da una lingua veloce e versatile che sa saltellare dall’inglese al latino, dal dialetto ai linguaggi specifici della fotografia e della psicanalisi, in scrittura felice che ora si inerpica verso l’alto, ora scende nel popolare; una lingua variegata, usata con maestria, secondo le esigenze della narrazione. (Donatella Albergo - su Amazon)

Un racconto che scorre veloce e appassiona chi lo legge. Impossibile non affezionarsi al suo personaggio principale che, per chi lo conosce, somiglia molto al suo autore. Da leggere d'un fiato. Descrive anche il degrado di una città, la solitudine di un uomo (dopo tutto nasciamo e moriamo soli) ed un contrasto generazionale senza tuttavia mai annoiare senza sforare in sterili moralismi. Sullo sfondo il mistero di un orologio rubato. (Anonimo - su Amazon)

Un libro moderno, ben scritto con numerosi spunti di riflessione. Alla fine della lettura sono rimasta piacevolmente colpita dalla bravura dell'autore nel tradurre le immagini, le sensazioni e gli odori in parole. (Caterina su Amazon)

Semplice ed efficace, ricorda per alcuni aspetti, il "Profumo" di P. Suskind. Una lettura assolutamente consigliabile. Ben vengano questi nuovi autori non paludati. (Fracasso da Velletri - su Amazon)

L’inizio del romanzo è una lettera, che il padre scrive alla figlia. Dal contenuto si evince già il finale della storia e la lettera diventa il testamento spirituale del protagonista: è la dichiarazione di amore per il nipotino da parte di un nonno e la sua denuncia di privazioni d’affetto, di dialogo con la ex moglie e la figlia e del bisogno della luce di verità sulla vicenda, che ha sconvolto la sua vita. “La verità è l’unico modo per mettere ordine a passioni e sentimenti. Diversamente, sarebbe sentimentalismo”. Con pochi tratti essenziali si delinea la condizione esistenziale: l’orgogliosa solitudine punteggiata da amare considerazioni sulle conseguenze di una breve relazione extraconiugale, in passato intrapresa e vissuta con superficialità e leggerezza. E gli effetti furono e sono ancora devastanti: l’allontanamento della moglie, il risentimento della figlia, che si traduce nel centellinargli le frequentazioni del nipotino. La spiccata emotività e la sensibilità del protagonista, ormai settantenne, si coniugano con una sua particolare capacità di cogliere, sublimandoli, gli odori che gli fanno carpire l’anima, l’intima essenza delle cose e delle persone e lo guidano in un percorso di recupero memoriale. Episodi dell’infanzia che lo hanno precocemente messo di fronte al dilemma esistenziale, che prima o poi ogni essere umano si pone: come sono atterrato sulla faccia della terra, come ne partirò? Da dove, come esce l’anima dal corpo al momento della morte? E ogni significativa esperienza di vita si affaccia alla sua interpretazione attraverso sensazioni olfattive. È in una di queste situazioni di forte impatto sensoriale ed emotivo con il passato che si verifica l’incontro casuale, che tanto inciderà sul suo futuro. Una giovane tossicomane lo adesca alla fermata del bus. Due mondi distanti non solo per età si incontrano, si esplorano e si contemplano nelle loro problematicità: il settantenne che si sente vecchio e solo, la ragazza chiusa e sola nel labirinto della droga, che gli si offre per denaro. L’incontro è un’esperienza che prende l’anima del protagonista e il momento più significativo è quel sue prenderle la mano, con la sola intenzione di non perderla. Un palpito di tenerezza e un bisogno di afferrare la vita nell'illusorio tentativo di fermare il suo inesorabile fluire? L’atmosfera è suggestiva, fatta di odori che rimandano ad un camino spento con il suo odore di cenere. Sintesi ancora delle sue ultime vicende: fatti, situazioni e personaggi che mai avrebbe potuto immaginare che potessero far parte del suo vissuto: una giovanissima ladra tossicomane, una coppia (madre-figlia) di “consolatrici” a domicilio di anziani soli, un magnaccia alle costole offeso “nell'onore”, un ricettatore di oggetti rubati. Lui, alla ricerca disperata del suo prezioso orologio, un “generoso regalo” dell’azienda per il suo pensionamento, è angosciato dal solo pensiero di non poterlo più regalare a Giuliano, il suo nipotino. Unica nota positiva, la conoscenza di Federica e Christa, compagne di vita e madri del piccolo Ludovico. Con grande delicatezza, ma non senza una residua perplessità, il nostro protagonista affronta il tema del diverso orientamento sessuale con il suo carico di pregiudizi, maldicenza, che provocano spesso emarginazione, solitudine e disagio esistenziale. La narrazione della prima parte ha un ritmo lento, ma non noioso, caratterizzato da descrizioni di situazioni, ambienti, personaggi colti nelle loro peculiarità, rivisitate dalla acuta sensibilità del protagonista. Il ritmo si fa più sostenuto con la rottura dell’equilibrio iniziale, la scoperta del furto dell’orologio, in un crescendo di ansia nella ricerca di esso e nell'impatto con un ambiente malfamato di prostituzione, spaccio, ricettazione. Cosa resta al lettore? L’incontro con un personaggio vero nelle sue inquietudini di un uomo solo e amareggiato, che riesce a trasmettere sensazioni ed emozioni, che lasciano a lungo un’impronta nel profondo. (Teresa Orlando su Youcanprint)

Ho appena terminato la lettura di una storia coinvolgente, dall'intreccio ben congegnato e dalla scrittura fluente e ricca di picchi espressivi.
Un attacco di panico è all'origine dell'incontro casuale dell'anziano Nicola con una giovane tossicodipendente e sarà un incontro pregno di conseguenze. 
L'attacco di panico è provocato dall'odore intenso di "urina equina" che fa riemergere in Nicola un ricordo infantile traumatico: il suo nome pronunciato con voce alta e allegra da una donna che subito dopo viene investita dal tram, il rosso del sangue, il nero del fallo di un cavallo che lì vicino piscia un getto proprio sulla pozza di sangue, un getto giallo che profana e sangue e vita e infanzia. 
Per fuggire all'odore e al ricordo, Nicola cambia marciapiede e dà un inconsapevole inizio a una storia complessa: la giovane tossica gli ruba il suo pregevolissimo Audemars Piguet, un orologio ricevuto in regalo per il suo pensionamento e destinato al nipotino adorato che la figlia gli permette di vedere con il contagocce. Per ritrovarlo, il protagonista scenderà agli inferi, nel quartiere più malfamato della sua città, e verrà in contatto e vedrà ruotare attorno a sé personaggi dediti al crimine descritti nei loro movimenti con una coreografia sapiente. 
Sono numerosi i personaggi di questa storia, e di nessuno ci si dimentica in quanto sono raffigurati e raccontati con una straordinaria resa descrittiva, come non ci si dimentica del filo rosso che lega dialoghi e azioni, quella che l'Autore definisce "una retroflessione del nasale olfattivo", molto più di un' involontaria e proustiana associazione gusto-odore-ricordo, ma invece un affiorare di qualcosa di corporeo ed esistenziale insieme. 
E quando, dopo la lettura di innumerevoli traversie, alcune comiche e imbarazzanti, altre commoventi, si arriva alle ultime righe, si comprende appieno, e solo in quel momento, l'importanza della lettera che precede il Prologo: un vero, bellissimo, spiazzante e significativo "colpo di coda". (Nadia Bertolani)

Feedback a Odore di Camino spento di Enzo Pagano. 
A volte nella vita succede una cosa, apparentemente normale che scatena una serie di eventi carastrofici. E così al signor Nicola, un arzillo pensionato che si sente giovane ma anche vecchio, per colpa di un odore rimasto nelle sue narici fin da quando era un ragazzino, capita che si ritrovi a dover ragionare di un orologio con un piccolo boss locale, di chiedersi chi sia la giovane tossica a cui ha regalato 100 euro in cambio di un opinione sul gusto di uno whisky torbato di rara bontà, chi sia lo sconosciuto zoppo che lo perdona per uno sgarbo di tanti prima, di aver a che fare con una conturbante diciottenne, la madre di lei, il portiere del condominio, un autista di autobus, lo zio della ragazzina, un vecchio compagno di scuola, due lesbiche, un bambino, la figlia, il nipote e pure il genero...una vecchia fiamma, il vecchio datore di lavoro...e se stesso.
Ironico, spesso cinico, Enzo ci conduce nella vita di un uomo che è stato qualcuno e che adesso sembra non valere più nulla, che si dibatte nei suoi ricordi più vividi e nella smemoratezza fino al colpo di scena finale. E rimane una domanda: finirà di scrivere cosa è successo dopo tutto il macello? 
Scrittura limpida e pulita, ricercata ma mai pesante, si legge con piacere e anche con un sorriso di complicità con il protagonista. (Clara Bartoletti su Facebook)

Un diverso altrove

“Un diverso altrove”: un titolo enigmatico. E’ un luogo lontano, chimerico, presente nei sogni più gelosamente coltivati da ognuno di noi, desideroso di estraniarsi da una realtà non appagante, da una quotidianità che smorza la volontà di aderire alla vita? O si tratta di un individuo particolare, uno considerato “diverso” dalla società, uno “non in linea” con chi o ciò che è “normale”? 
E dove questo “diverso” potrebbe essere se stesso se non in un “altrove”, che è qualcos’altro dalla nostra realtà malata di pregiudizi, di intolleranza, di razzismo, di omofobia?  (Teresa Orlando)

Seppur dalle prime righe il romanzo si presenti come un giallo a tutti gli effetti, con l’intera vicenda che si sviluppa sul telaio di un avvenuto omicidio con relativa indagine, continuando la lettura, ciò passa decisamente in secondo piano, in quanto si è subito catturati da altri aspetti, altamente simbolici, che costituiscono le tematiche del libro. 
Il titolo dà subito un input molto preciso e spinge il lettore a riflettere sul significato di “altrove”; non solo, lo spinge oltre, con l’accostamento dell’aggettivo “diverso”. I personaggi, infatti, portano avanti la loro vita su un doppio binario e in una dimensione conflittuale, vivendo una quotidianità apparentemente “normale”, ma allo stesso tempo, non avendo la forza e il coraggio di esternare i propri sentimenti e le proprie “devianze”, rifugiandosi “altrove”.  (Lucia Brunetti)

Enzo Pagano, Un diverso altrove (di Chiara Saccavini su Facebook)
Nel mio ‘viaggio virtuale’ alla scoperta degli autori Youcaniani, eccomi approdata a questo romanzo di Enzo Pagano. 
Mi ha colpito subito il titolo, misterioso ed intrigante. Ci ho rimuginato sopra a lungo, sulle parole che compongono questo titolo. Mi ricorda una litote, con quel suo voler riaffermare il concetto espresso. Sarà comunque l’autore stesso ad un certo punto della narrazione, a chiarire bene il concetto onirico di questa sua scelta. Lo fa attraverso l’immagine di un’opera celeberrima di Marc Chagall, in cui i due amanti volano nel cielo, verso un luogo sospeso, un altrove, appunto, da dove il reale non si vede più.
Il romanzo prende avvio da un efferato delitto, compiuto non a caso nei bagni dell’università, quasi a sottolineare a rimarcare un disagio e un disprezzo per una situazione ed una persona in particolare. I protagonisti sono tutti appartenenti a quel piccolo mondo, un po’ ipocrita e molto perbenista. Ma ognuno di loro sembra poi avere una sua vita segreta, fatta di scelte difficili e dolorose. L’autore ce li presenta attraverso le loro azioni, facendoceli conoscere dalle loro reazioni al fatto accaduto. Pagano è conscio che al lettore le ‘cose’ non vanno tanto dette, quanto mostrate. 
E, quella che ci viene presentata, mi sembra, sia un’umanità stanca della vita, anzi, stanca delle menzogne che la vita racconta e ci porta a raccontare. 
Il modo di scrivere di Pagano è realista, anzi quasi iperrealista. Una scrittura che coinvolge tutti nostri sensi, la vista e soprattutto l’olfatto: ci rammenta che nella narrativa il significato non è l’astratto, ma il vissuto. La narrativa, come scrisse benissimo Flannery O’ Connor, è un’arte che richiede la più rigorosa attenzione per il reale. Confluiscono così nella sua prosa termini forbiti, eleganti, citazioni dotte, cultura e storia ebraica; insieme, però, compaiono parole ed immagini meno ‘auliche’ che sono tuttavia entrate nel dire comune. La vita in fondo è fatta anche di questo. La letteratura non può esimersi dal trattare tutti i lati della vita, siano essi, di volta in volta, luminosi o oscuri. Non è più il tempo delle lettere racchiuse nella torre eburnea. La narrativa riguarda tutto ciò che è umano, e poiché la conoscenza umana ha inizio attraverso i sensi è corretto che un autore agisca attraverso di essi, in modo da portare il lettore al centro della narrazione. 
Nel complesso è un romanzo che si fa leggere piacevolmente e Pagano, dispone bene le informazioni per il lettore, che viene guidato verso un epilogo logico e abbastanza chiaro fin dalle prime pagine. Questo perché credo che il ‘giallo’ o meglio il ‘noir’, che crea l’ossatura della storia, per l’autore debba rimanere solo tale e permettere all’autore e, soprattutto, al lettore di indagare la complessità della vita, reale ed onirica.

Gilda e Marco non erano sposati

Commenti da: ilmiolibro.it

La parola chiave è Finzione!

(di Nadia Bertolani)

Ambientata quasi esclusivamente sulla panchina di un parco, la storia di Marco e Gilda non è in realtà la storia di Marco e Gilda soltanto: a loro, in un fresco pomeriggio d’Ottobre, e nei pomeriggi seguenti, si uniscono il pensionato Vincenzo e la bambina Noemi che intrecciano dialoghi e riflessioni esistenziali degne di Vladimir e Estragon che aspettano Godot. Li ascolta il netturbino Sergio, ex funzionario di banca, che ha in comune con loro la stessa stralunata concezione dell’esistere e che, ramazzando le foglie cadute dei tigli, sembra allo stesso tempo mettere ordine tra le parole e i gesti dell’improbabile quartetto. L’incipit del racconto spiazza il lettore, anche quello non necessariamente illuso di trovarsi davanti a una storia romantica; anche il lettore più smaliziato, quello che ne ha lette di tutti i colori, esita a definire il tipo di storia che si trova tra le mani. Un giallo? E’ stato commesso un assassinio nel parco e si sono mobilitate le forze dell’ordine. Ma la vittima è una tortora… Dunque no, non si tratta di un giallo anche se più avanti succederanno ben altri omicidi, ben altre efferatezze. Forse una storia erotica? In fondo c’è quella assatanata di Melissa che gode ad affondare i suoi artigli nella schiena del marito… Ma no, nessun compiacimento sensuale, piuttosto un sadico gioco grottesco. E poi e poi… Perché viene citata l’Alice di Carrol se non per insistere sull’irrealtà del reale? Dunque Enzo Pagano si è divertito a intrappolare il lettore nella rete delle sue metafore e dei suoi rimandi? Certamente sì se pensiamo, per esempio, che la noia dei due pensionati a cena, Vincenzo e la moglie, è la stessa di Emma Bovary quando nello squallore della sua cucina mescola rancore e tedio. E come spiegare quei riferimenti colti alla pittura (I mangiatori di fagioli), al cinema (Viale del Tramonto), alla musica (il sassofonista di strada)? Tutto è estremamente divertente e al contempo maledettamente complicato: si tratta forse di un metaromanzo? In parte sì, perché nelle ultime pagine sono proprio due scrittori in nuce a ripercorrere e a reinventare tutto quello che è successo lontano dalla panchina. Ma non è così semplice. Il gioco degli specchi, le maschere che coprono la realtà “vera” dei personaggi, le torsioni illogiche dei loro ragionamenti, l’assurdità dei rapporti familiari con quei padri e quelle madri che terrorizzerebbero chiunque, le contorsioni dialettiche dei dialoghi, quel lampo di luce che scende a illuminare la tortora morta e a darle significato, tutto, tutto ci porta a una sola parola: barocco. Il Barocco, con la sua letteratura che mette al centro la falsità del sogno e del teatro, con il suo gioco della finzione e dell’inganno, il barocco con la sua poetica dell’illusionismo, dell’apparire, del gioco di prestigio, è forse la chiave più efficace per aprirci la strada nell’intrico intelligente e arguto di questo bellissimo racconto. Dove nulla è semplice. E dove tutto viene narrato con una complicata semplicità. Voltata l’ultima pagina, dopo un primo disorientamento, il lettore comprende di aver fatto parte di un gioco riuscito alla perfezione, e non sa più quale ruolo gli spetti: se quello di lettore, di autore o di personaggio al pari della bambina Noemi dai lunghi capelli biondi tanto simili a quelli di Alice nel Paese delle Meraviglie.  

 

Silvana Leone

"Non si può dare una risposta a tutto" fai dire al vecchio, che essendo vecchio dovrebbe essere saggio e invece... E così intorno a quella panchina ruota un mondo assurdo, come nel teatro di Beckett, ma anche come la sgangherata famiglia di Malaussene in Pennac. E' ironico e profondo al tempo stesso il tuo racconto, dove i dialoghi sono molto belli e articolati, solo apparentemente irrazionali. Le parole rimbalzano e si rincorrono e non spiegano nulla, eppure dicono tutto. Su quella panchina si dispiega la vita, coi suoi dubbi irrisolti, che tu hai esposto con ironia assoluta.

Cinzia

Tutto un mondo attorno ad una panchina per questo incipit, dove l'autore come un direttore d'orchestra fa suonare le battute ai suoi personaggi. Un lavoro pregevole, colto e ironico,non semplice per la sua concezione. Complimenti un piacere leggerti!

Lauretta

Il ritmo lento e cadenzato, l'atmosfera surreale e le surreali - forse? - figure dei protagonisti, accompagnano il lettore pagina dopo pagina. Il narrare è delicato, quasi non voglia disturbare le riflessioni dei protagonisti. Molto bello.

Primo

Ecco un bel libro, un piacere leggerlo. Una struttura solida, un dialogare irrazionale, ma lucido; botta e risposta con un velo di nonsense... e tutta una trama da seguire con serenità perchè lieve, mai pesante o noiosa. Un libro che merita. (Lo dico anche da utente deluso dalla scelta dei finalisti del concorso, di libri che meritavano la finale ce ne erano ben altri)

Maddalena Frangioni

Un racconto dal tono ironico, leggero, in cui i fatti si dipanano in un lento flusso di situazioni piuttosto paradossali, dove i personaggi dall'aria un po' svagata, sognante, e direi piuttosto irreale, nel farci sorridere ci svelano anche i segreti e le contraddizioni della vita. E' il dialogo che campeggia in questa storia, attraverso di esso che i personaggi interagiscono regalandoci un racconto piacevole.

Maria

Ho commentato tutti i libri del Pagano. Libri uno più belli degli altri che ci regalano emozioni ed umanità. La storia di Gilda e Marco dalle mille sfaccettature si svolge attorno ad una panchina con una narrazione ironica , surreale, ben strutturata e con un ottimo stile. Libro da leggere. Complimenti all'autore.

I genitori di Scanzi & Renzi

Diviso in brevi capitoli che hanno la funzione ambiziosa di riassumere una vita, questo libro agile e godibilissimo di Enzo Pagano è un Amarcord solo apparente. E’ pur vero che, per affinità anagrafica, leggendolo mi sono guardata allo specchio, ma ritengo che i lettori più giovani potranno ricavarne un divertimento analogo al mio anche se connotato da una diversa stranezza. Parlo di stranezza perché gli anni sessanta e settanta, rievocati a partire da una contemporaneità fatta di “rottamatori” (Renzi) e di “sdraiati” (Serra), vengono rievocati con il Punto di Vista di chi quasi non crede che certe cose possano essere successe e che altre possano accadere. Lo “straniamento” è la tecnica particolare per cui la realtà o una porzione di realtà ci vengono descritte da un punto di vista inusuale e pertanto stravolte, incomprensibili quasi a chi le racconta e a chi le legge. Così, il sogno (Aldo, Enrico & Sandro) sembra solo la rattristata constatazione che il mondo a una certa età è fatto di assenze, che i padri e i figli non si incontrano mai (Citazionismo e Ferie), che invecchiare è perdere la memoria e le amicizie (Comesichiama) e anche la voglia di parlare. Ma non è un libro malinconico questo, tutt’altro: nella rievocazione del passato ci sono i graffi dell’ironia e dell’autoironia, di uno scetticismo filosofico che non deprime ma sa raccontare cose che a dirsele sembrano incredibili (Igienismo, Il ventennio passato I e II). L’Italia che abbiamo vissuto noi della generazione dell’autore ci appare in queste pagine quasi inconcepibile ma qua e là le intuizioni e le formule icastiche di Enzo Pagano sono iniezioni di buonumore arguto: leggendo dei rapporti tra ragazze e ragazzi in quegli anni ormai lontani in cui si faceva strada la libertà sessuale ci imbattiamo in lezioni di vita fulminanti come “penetrammo l’altra metà del cielo senza coglierne l’interezza” oppure scopriamo quali sono stati i primi passi di quella rivoluzione informatica che oggi permea le nostre giornate, e ci riconosciamo nell’amore per i Peanuts o per Paolo Conte e se siamo troppo giovani e non le abbiamo ascoltate, le canzoni degli anni Cinquanta ci investono come una folata di vento, un vento sconosciuto e bizzarro che parte dal passato e ci parla del presente. E così ancora è per la questione ebraica, il terrorismo, l’operaismo, il cinema, l’amore, il lavoro, il linguaggio (come non ridere di quel CIOE’ evocato e tanto sentito allora?). L’autore ha come cifra stilistica dominante una capacità di sintesi che spiazza ed è la stessa che ci conquista in tanti aforismi. Se dovessi dire cosa mi ha maggiormente colpito di queste pagine, sarei in serio imbarazzo e temo di non averne dato conto con completezza. Però in una recensione su questo sito, rivolta a persone accomunate dalla stessa insana passione per la scrittura, non si può fare a meno di citare le parole con cui Enzo Pagano svela la magica relazione privatissima ed esclusiva che s’instaura tra un lettore e un personaggio letterario, in questo caso tra lui e il giovane Holden: “…  Correva dietro a immagini fantastiche e ossessioni paranoiche che il mondo potesse avercela con lui da volersi richiudere in qualche cottage… e non farsi più vedere… Questo, non lo disse ma avevo capito che desiderava. Perché… lo desideravo anch’io…. e promisi che non avrei rivelato a nessuno i suoi reconditi pensieri.” Ma vent’anni dopo “Quel Baricco, con la tipica presunzione degli arrivisti, spifferò tutto. Dannazione!” (Nadia Bertolani)

Una chiacchierata fraterna con un amico è l’atmosfera che aleggia in questo libro, ma le chiacchiere non sono ciarle né pettegolezzi bensì piccole verità quotidiane, sensazioni, ricordi di un periodo che ha segnato la storia d’Italia, raccontate e vissute da chi allora aveva nel naso l’odore del vento, cioè di chi, come tutti noi, custodiva, al contempo, una certezza ed una speranza: quella di migliorare il mondo. Non dico cambiare perché questo termine è stato logorato, abusato, denaturato da una politica che mascherava dietro parole importanti intenti completamente opposti a quello della significazione del termine. Libertà, cambiamento, democrazia, rinnovamento…oggi come allora, sono usate per confondere, celare i veri intenti di una classe di uomini moralmente nani.
Quando a scrivere la storia è qualcuno che l’ha vissuta allora anche piccoli frammenti personali divengono importanti ed essenziali per capire il periodo che si sta descrivendo perché sono riportati nudi e crudi senza i veli e i fumi che, ad esempio, la storiografia ufficiale genera, quando tralascia il sociale per dedicarsi genericamente soltanto agli eventi eclatanti.
(Stefano)

 

Qualcuno giudicherà questo libro troppo diretto, troppo personale ed eccessivamente affilato e tagliente, ma sbaglia perché la verità non ha aggettivi, essa è e null’altro, o la si vuole conoscere oppure è meglio che si ignori.
Anche se sono di una generazione dopo, molti dei modi di vita, delle attese, delle speranze, degli atteggiamenti, delle relazioni interpersonali descritte in questo libro, fanno parte del mio patrimonio umano e della mia memoria anche se in luoghi e con persone diverse. E’ un libro che consiglio soprattutto alle giovani generazioni, ai nuovi verdeggianti rami che oggi adornano il nostro comune albero, affinché comprendano le proprie radici in quale terra si sono sviluppate, si nutrono e sostengono. Un grazie a Vanni che ha saputo scrivere un libro di storia reale dove il romanzo è la vita quotidiana, cosa che molti autori ignorano. 

Partendo da un argomento di stretta attualità l’autore allarga la sua visuale a tratteggiare uno spaccato di vita italiana sul quale inserisce le proprie esperienze personali. Lo fa con un bel libro a metà strada tra il romanzo e il saggio, che analizza parecchi aspetti del proprio vissuto cercando, dove possibile, un filo logico e conseguenziale che colleghi il passato al presente.Gli argomenti, dai più seri ai più leggeri, dai più generali ai più intimi, si alternano in una narrazione per capitoli che spazia dalla politica alla musica, dalla religione al teatro, dal femminismo all’informatica, dalla letteratura al terrorismo e tanto altro. A far da filo conduttore è la maturazione spirituale, sociale, politica e letteraria dell’autore, che analizzata in chiave ironica ed autoironica, conduce facilmente il lettore non giovanissimo sulla stessa lunghezza d’onda. Con un bello stile, sempre misurato e mai sopra le righe, l’autore apre e chiude frasi e ragionamenti in modo fluido e circostanziato;talvolta con una felice  considerazione finale. Enzo Pagano scrivendo si diverte e, anche se le pagine finali lasciano trasparire un po’ di amarezza, credo che nella vita rifarebbe tutto alla stessa maniera. Un libro da leggere e meditare. (Giampiero Barale)

Una fiction di e con l'autore

Una narrazione intrigante, apparentemente semplice, che cela sottili giochi linguistici e scambi di ruolo tra autore e personaggi. La metanarrazione si intreccia con aspetti spettacolari e colpi di teatro, con un effetto a sorpresa che coinvolge il lettore. (Rosa Colonna)

 

UN GIOCO DI INTELLIGENZA

 

Dino, Gilda, Francesca e Nicola, tanto improbabili da sembrare veri, tanto veri da risultare incredibili, sono i personaggi di questo romanzo che pretende di rivelarsi passo passo, mentre viene scritto o addirittura pensato e corretto, intenzioni di cancellazione incluse.

Un romanzo in fieri.

Il progetto di vivere una trama nel momento stesso in cui la si scrive dà origine a monologhi deliziosamente perversi e a dialoghi surreali. E nel sottofondo l’ammiccamento ai Lettori: si sta parlando di letteratura o di vita?

È sulla linea di questo paradosso che si snodano vicende, intenzioni, smacchi ed equivoci e l’equivoco principe è quello che mette in gioco in un’inarrestabile giostra Personaggi e Narratore, Autore e Lettori, verità e finzione e, in una parola, la scrittura stessa.

Nicola, marito di Francesca e amante di Gilda che è sposata con Dino, è il Narratore. Sta scrivendo un libro, quello appunto che leggiamo, e ci racconta di tutto: dalle scene da un matrimonio - dove la masticazione del cibo, a tavola, i due seduti l’uno di fronte all’altra, è l’evidente metafora della difficoltà di comunicare o addirittura di sopportarsi a vicenda - alla ringhiera della terrazza dove va a fumare in solitaria, a spiare le finestre di fronte, a riflettere e a ordire trame. L’amico Dino è stato licenziato, ma quello che il Narratore si chiede è se e come potrà fare di un episodio vero una finzione letteraria: perché questo Narratore è teneramente cinico o cinicamente tenero se l’unica commozione che si concede non viene dal di dentro e anzi deve scomodare Mozart e Milos Forman per provare “fisicamente” quanto possa far piangere “un giorno di pianto” (lacrimosa dies illa).

In ogni caso è un bugiardo perfido.

Manipolatore senza esitazioni né rimorsi, succhia la vita dei suoi Personaggi come un vampiro, arriva a nascondere delle cimici in due regali che fa a Gilda e Dino per intercettare tutto di loro, non solo i gemiti durante gli amplessi ma addirittura i pensieri, perché questa è la prerogativa degli scrittori. E noi che leggiamo non possiamo fare a meno di chiederci, con un pizzico di ansia e una bella dose di divertito dispetto: riuscirà il Narratore a mantenersi fuori dal gioco e a tenere ben saldi i fili che reggono i suoi burattini? O si troverà, anche lui, imbrigliato nella rete del suo Autore e ricondotto anche lui, sì lui, al semplice ruolo di Personaggio?

Il rischio c’è ed è evidente nei suoi piccoli cedimenti, nelle sue piccole concessioni al dubbio, negli accadimenti che non riesce a controllare: la ringhiera, la vista del mare, la Camelia sorvegliata ansiosamente, le volute di fumo della sigaretta e, voilà, la lunga parabola di un mozzicone lanciato dal nono piano di un palazzo, l’incendio della palma nel giardino sottostante, un volo. Della fantasia ma anche della realtà in agguato.

E infine il coup de théâtre che non è il caso di svelare qui ma che ci insegna quanto, tra tutte le attività rischiose a cui ci si può dedicare - viaggi nel deserto, traversate in solitaria in mare aperto, scalate a mani nude su pareti verticali, percorsi nelle jungle senza bussola,  servizi fotografici in zone di guerra -  la più insidiosa sia senz’altro la scrittura.

Il cerchio si chiude. Con un gesto risoluto anche il Lettore chiude il libro. La decisione è presa: scriverà un libro anche lui. È questa la trappola della scrittura: fa sembrare il vecchio gioco dello scambio di ruoli un eccitante e sempre nuovo inganno.

Chi scrive la recensione di queste pagine brillanti e argute, nate dalla splendida penna di Enzo Pagano, spera ardentemente di non essere identificata con la filologa morbosetta e saccente che siede sulla panchina della fantasia di un Narratore che è anche Personaggio e Autore.

Anche se tutto è ancora da dimostrare. (Nadia Bertolani su Amazon)

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